Pubblicato il 23/01/2023
Categoria : Diritto Penale | Sottocategoria : Atti persecutori
Con la sentenza
n. 242 depositata in data 9 gennaio u.s., la V sezione penale della Suprema
Corte è tornata a ribadire il proprio orientamento per il quale al reato
abituale non si applica il principio valido per i reati permanenti secondo cui,
nell’ipotesi di contestazione aperta, il giudizio penale di responsabilità può
estendersi senza necessità di alcuna modifica dell’imputazione agli sviluppi
della fattispecie emersi nell’istruttoria dibattimentale.
Una recente ed interessante
pronuncia della V sezione penale della Corte di Cassazione che ribadisce un
orientamento già esistente in materia di reato abituale e reato permanente
circa la valutazione delle condotte di atti persecutori poste in essere anche
successivamente all’esercizio dell’azione penale.
Abstract: Con la sentenza n. 242
depositata in data 9 gennaio u.s., la V sezione penale della Suprema Corte è
tornata a ribadire il proprio orientamento per il quale al reato abituale non
si applica il principio valido per i reati permanenti secondo cui, nell’ipotesi
di contestazione aperta, il giudizio penale di responsabilità può estendersi
senza necessità di alcuna modifica dell’imputazione agli sviluppi della
fattispecie emersi nell’istruttoria dibattimentale.
Il
caso:
Con l’ordinanza
impugnata, il Tribunale di Sorveglianza di Bari accoglieva l’appello del P.M.
avverso l’ordinanza del Tribunale di Foggia che aveva dichiarato la cessazione,
per scadenza dei termini, della misura cautelare del divieto di dimora
applicata in relazione al delitto di atti persecutori.
Secondo il
Tribunale di Sorveglianza, il Tribunale di Foggia aveva erroneamente dichiarato
la perdita di efficacia della misura a decorrere dal 20.11.2021 poiché il
termine della fase dibattimentale sarebbe spirato solo il 30.11.2022
applicandosi al delitto di cui all’art. 612 bis c.p., contestato con formula
aperta “dal 2012 all’attualità” ed in presenza di ulteriori episodi commessi
successivamente alla novella legislativa, il più grave trattamento
sanzionatorio introdotto con la Legge 69/2019 con conseguente applicazione del
maggior termine di fase cautelare (due anni).
Il difensore
dell’imputato proponeva ricorso per Cassazione sostenendo che la richiesta di
rinvio a giudizio era stata formulata il 4/7/2019, ovvero prima della
introduzione della L. n. 69 del 2019, che ha aggravato il trattamento
sanzionatorio in relazione all’ipotesi di reato ex art. 612 bis c.p. ed ha
conseguentemente raddoppiato i termini di fase delle misure cautelari e che,
sulla base di un orientamento più volte ribadito dalla sezione V della Corte, al
reato abituale non si applica il principio valido per i reati permanenti,
secondo cui, in ipotesi di contestazione aperta, il giudizio penale di
responsabilità può estendersi, senza necessità di alcuna modifica
dell’imputazione, ai fatti nuovi emersi nell’istruttoria dibattimentale; nel
caso de quo, a seguito di nuova querela della persona offesa era emerso altro
episodio persecutorio per cui il P.M. aveva esercitato autonoma azione penale
successivamente all’entrata in vigore della Legge 69/2019 ma tali fatti erano
estranei al presente giudizio non potendosi applicare né il più severo
trattamento sanzionatorio né il maggior termine cautelare.
I
motivi della decisone della Suprema Corte ed il ragionamento posto in essere.
Nella sentenza
in commento, i Giudici, pur dando atto che, nella giurisprudenza di
legittimità, non si registra uniformità di vedute in tema di atti persecutori
con formulazione a "contestazione aperta", hanno ritenuto di
confermare quell’orientamento già esistente secondo il quale, nel caso di
reato abituale, è necessario che tutti gli atti cronologicamente succedutisi
siano stati oggetto di contestazione e di accertamento giudiziale a differenza
che nel reato permanente in cui - nell'ipotesi in cui manchi la individuazione
di un termine finale di consumazione della condotta - quest'ultimo non può che
coincidere con quello della pronuncia della sentenza di primo grado che
cristallizza l'accertamento processuale.
Poichè, quindi,
al reato abituale non si estende il principio, proprio di quello permanente -
secondo il quale, nell'ipotesi di contestazione aperta, il giudizio di penale
responsabilità dell'imputato può estendersi senza necessità di modifica della
contestazione originaria agli sviluppi della fattispecie emersi
dall'istruttoria dibattimentale (Sez. 2, n. 20798 del 20/04/2016, Rv. 267085),
il Giudice può tener conto dell'eventuale protrarsi della consumazione soltanto
se ciò sia oggetto di un'ulteriore contestazione ad opera del pubblico
ministero ex art. 516 c.p.p.
Tornando al
caso in esame, il Collegio ha osservato che il dato fattuale, costituito dalla
presentazione di una nuova querela per altri fatti, che sono stati oggetto di
autonoma imputazione in altro procedimento, realizza il superamento del dato
meramente processuale, costituito dalla fictio juris che porta a collocare la
cessazione della condotta abituale all'epoca della sentenza di primo grado;
l'autonoma iniziativa processuale dell'organo dell'Accusa, che ha esercitato
una diversa azione penale, ha, invero, fatto confluire le condotte
successivamente denunciate dalla persona offesa in altro procedimento, con la
conseguenza che esse non possono essere più ricondotte nello spettro
dell'abitualità del reato di atti persecutori di cui al presente procedimento,
dovendosi, piuttosto, ritenere chiusa l'imputazione alla data dell'esercizio
dell'azione penale.
Il Tribunale
distrettuale ha mostrato di non fare corretta applicazione di tali principi
alla prova dei fatti i quali dimostrano, empiricamente, come il fatto
contestato nel presente giudizio debba considerarsi cristallizzato, per opzione
dello stesso Inquirente, alla data dell'esercizio dell'azione penale, che
chiude a quel momento l'imputazione, con tutte le conseguenze che ne derivano
ai fini della individuazione della legge ratione temporis applicabile, secondo
le regole che presidiano la successione delle leggi penali, e dei correlati
termini cautelari.
Da ciò non può
che conseguirne l'annullamento della ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale
di Bari che, nel nuovo giudizio, si dovrà attenere ai principi richiamati,
chiarendo se successivamente all'esercizio dell'azione penale si siano
verificati atti persecutori non presi in considerazione in nessuno dei due
giudizi già in corso.