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Pubblicato il 07/07/2021

Stereotipi discriminatori nei confronti delle donne: l'Italia condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Commento della Dott.ssa Giulia Pugliese

Categoria : Diritto Penale | Sottocategoria : Diritto Penale Internazionale

La Corte europea dei diritti dell'uomo ancora una volta condanna l'Italia per delle espressioni utilizzate in una sentenza discriminatorie nei confronti di una donna che aveva denunciato ai suoi danni una violenza sessuale di gruppo.

Stereotipi discriminatori nei confronti delle donne: l'Italia condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Commento della Dott.ssa Giulia Pugliese

Dopo tutte le campagne di sensibilizzazione e l’attenzione che, soprattutto negli ultimi anni, l’Italia sta dedicando alla tutela delle donne, nessuno si sarebbe aspettato che il nostro Paese avrebbe potuto ricevere una condanna da parte della Corte EDU per aver violato il diritto al rispetto della privacy e della vita familiare.

 E invece è proprio ciò che è successo; il 27 maggio 2021 la Corte europea dei diritti umani ha accertato una violazione dell’art. 8 della CEDU da parte dell’Italia per non aver tutelato l’immagine, la privacy e la dignità di una giovane donna che aveva denunciato di essere stata violentata da un gruppo di sette uomini.

La pronuncia J.L. c. Italia n. 5671/16 ha origine da una sentenza della Corte d’appello di Firenze che, in riforma di quella di primo grado, ha assolto i sette imputati alla luce di una inattendibilità attribuita dai Giudici di secondo grado alle dichiarazioni rese dalla persona offesa.

La Corte EDU ha riconosciuto all’Italia una buona gestione delle indagini e della conduzione del processo, nel corso del quale è stato sempre rispettato il giusto (e complesso) equilibrio tra gli interessi della difesa ed i diritti della presunta vittima.
Sul punto, infatti, il processo celebratosi avanti la Corte d’appello di Firenze si è dimostrato equo e garantista, riconoscendo ed assicurando agli imputati la possibilità di interrogare la persona offesa nel pieno rispetto dell’art. 6 della CEDU; l’Italia ha saputo, nel caso di specie, ben bilanciare i diritti delle parti, assicurandosi, al tempo stesso, che l’esame della presunta vittima non venisse usato come mezzo per intimidirla o umiliarla o per formulare delle insinuazioni offensive.
Nello specifico, la Corte d’appello di Firenze ha cercato di tutelare il più possibile la persona offesa vietando l’ingresso ai giornalisti, interrompendo domande ridondanti di natura personale o su argomenti poco pertinenti e concedendo delle brevi pause per consentirle di “riprendersi dalle sue emozioni”.
La violazione ravvisata dalla Corte EDU, come detto, non interessa la gestione delle indagini o del processo, bensì il contenuto della pronuncia di appello.
Nonostante l’impegno dimostrato dai Giudici di secondo grado nel cercare di attutire l’impatto emotivo che l’esame avrebbe potuto avere nei confronti della persona offesa, nella motivazione della sentenza si leggono delle affermazioni che si allontanano di molto dall’atteggiamento garantista dimostrato nel corso del processo. In particolare, appaiono assolutamente inopportuni i riferimenti alla lingerie rossa che la persona offesa avrebbe mostrato durante la serata, così come sono fuori luogo i commenti riguardanti la bisessualità della giovane o le relazioni romantico-sessuali occasionali intrecciate prima del fatto oggetto del procedimento.
Ciò ancora di più stride rispetto alle cautele messe in atto dal Presidente del Collegio e volte ad evitare il fenomeno della vittimizzazione secondaria che spesso interessa tutti quei procedimenti nei quali si procede per reati attinenti la sfera sessuale e/o nei quali la persona offesa è un soggetto vulnerabile, come ad esempio, minori o disabili.
Il fenomeno della vittimizzazione secondaria si manifesta ogni qual volta la persona offesa è “costretta”, attraverso il procedimento penale, a rivivere e ripercorrere, anche a distanza di anni, tutto il dolore e gli eventuali traumi patiti a seguito della commissione del fatto reato.
Ad essere maggiormente esposti, come si è già detto, sono i c.d. soggetti particolarmente vulnerabili, i quali hanno accesso a specifici strumenti di tutela, come ad esempio delle modalità di audizione protetta, volti, da un lato, a non disperdere informazioni che potrebbero risultare determinanti per la definizione del procedimento e, dall’altro, ad evitare che il processo penale possa portare la persona offesa a rivivere tutte le conseguenze negative derivanti dal fatto reato. 
Ciò detto, la Corte EDU, pur riconoscendo che l’Italia sia dotata di un quadro legislativo soddisfacente capace di assicurare, almeno in astratto, una tutela alle vittime di violenza di genere, ha ritenuto estremamente pregiudizievoli le affermazioni contenute nella motivazione, che hanno infarcito la pronuncia di secondo grado con un linguaggio discriminante e con stereotipi che non fanno altro che alimentare, e forse inconsapevolmente giustificare, la violenza di genere.
Nello specifico “la Corte è convinta che l’azione penale e la punizione abbiano un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta alla disuguaglianza di genere. E’ quindi essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi di genere nelle decisioni dei tribunali, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne a una vittimizzazione secondaria”.
In conclusione, dopo la sentenza Talpis c. Italia del 2017, l’Italia è stata nuovamente condannata dalla Corte EDU per aver dimostrato incapacità e inadeguatezza da parte dell’autorità giudiziaria italiana nel contrastare in modo efficace il fenomeno della violenza maschile contro le donne, alimentando, al contrario, pregiudizi e stereotipi discriminatori.
Ciò che ci si può augurare è che questa censura possa rappresentare, finalmente, un punto dal quale ripartire con la consapevolezza che, questa volta, il cambiamento dovrebbe partire in primis dall'alto.


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