Pubblicato il 03/12/2025
Categoria : Diritto Penale | Sottocategoria : Atti persecutori
Con
la pronuncia della V sezione penale della Suprema Corte n. 42643 del 10
novembre 2025, gli ermellini, pronunciandosi su un ricorso proposto
dall’imputato avverso un’ordinanza del Tribunale del riesame di modifica della
misura, riaffermano un principio fondamentale in materia di Atti persecutori ex
art 612 bis c.p., il c.d. stalking, in base al quale, in presenza
di una reciprocità degli atteggiamenti molesti, compito del giudice è quello di
compiere un vaglio critico e preciso del materiale in possesso per poter
verificare effettivamente la sussistenza dell’evento di danno, che si ricorda
essere costituito da uno stato di ansia o paura, dal timore per l’incolumità
propria o dei prossimi congiunti, ovvero dall’alterazione delle abitudini di
vita.
1. Introduzione.
I
fatti oggetto della presente pronuncia della Cassazione prendono avvio da una ordinanza
del GIP che applicava al ricorrente la misura cautelare del divieto di
avvicinamento alla vicina di casa (con l’ulteriore prescrizione di indossare
sempre i presidi elettronici e di non comunicare in alcun modo con la stessa).
Tale misura veniva motivata dal giudice valorizzando i gravi indizi a carico
dell’indagato che, stando alle indagini effettuate, dal 2019 compiva a danno
della vicina atti persecutori costituiti da rumori notturni intensi, offese e
angherie reiterate.
Il
P.M. impugnava l’ordinanza ed il Tribunale del riesame, in accoglimento del
medesimo atto, aggravava la misura cautelare imposta, prescrivendo l’ulteriore
obbligo di presentazione trisettimanale alla Polizia giudiziaria.
A
seguito di tale inasprimento, l’indagato adiva, dunque, la Cassazione,
sostenendo in primo luogo l’erroneità e contraddittorietà del provvedimento,
emesso dal Tribunale del riesame, nella parte in cui, pur riconoscendo e
cristallizzando il clima di continue molestie reciproche tra i condomini,
considerava gravi solo gli indizi a suo carico. In secondo luogo, lo stesso
rilevava come il volontario allontanamento della persona offesa dai luoghi di
causa nel frattempo verificatosi, avesse fatto venir meno le esigenze cautelari
dato che la situazione di fatto, ovvero il rapporto di vicinanza, non era più
in essere.
2. L’art.
612 bis c.p.
Si
tratta di una fattispecie delittuosa introdotta nel 2009 (D.L. 11/2019), e che
è stata modificata dalla L. 69/2019 (cd. Codice rosso), che ne ha innalzato la pena.
Ex
art. 612 bis c.p., quindi, chiunque, con condotte reiterate, minaccia, o
molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato d’ansia o di
paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un
prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva
ovvero, ancora, da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di
vita è punito con la reclusione da un anno a sei
anni e sei mesi.
A
differenza di quanto avviene per altre fattispecie delittuose, si consideri tra
tutte il reato di lesioni personali ex art. 582 c.p., la valutazione circa la
sussistenza di tali eventi non è relegata alla sola sfera medica ma deve essere
desunta da un’analisi approfondita del comportamento della persona offesa e del
suo mutamento con l’inizio delle condotte offensive.
Tecnicamente
si tratta di un reato di danno - evento abituale, ciò implica che, ai
fini della sua configurabilità, la condotta posta in essere dal soggetto agente
debba consistere in più azioni che causino uno dei tre eventi sopra descritti.
Data
l’elevata offensività di tali comportamenti, all’agente possono essere
applicate misure cautelari, corrispondenti, vista la materia, al divieto di
avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ma anche, in casi più
gravi, alla misura degli arresti domiciliari o della custodia cautelare in
carcere.
Nelle
ipotesi aggravate, poi, ex art 612 bis, comma 2-3, c.p., in caso di
condanna definitiva, non è prevista la sospensione dell’ordine di esecuzione
della pena.
3. La
Pronuncia della Corte di Cassazione
La
Suprema Corte, come anticipato, ha respinto i motivi proposti dal ricorrente, affermando
il principio secondo cui l’eventuale reciprocità delle offese non è elemento
tale da escludere la punibilità dal reato di atti persecutori o c.d. stalking.
Gli
ermellini, nell’esplicare il puntuale ragionamento compiuto al fine di
addivenire a tale soluzione, richiamano, in riferimento al primo motivo di
ricorso, alcuni principi basilari in materia di atti persecutori.
Come
è, infatti, pacifico (tra le tante, Cass. pen., sent. n. 42643/2021/ Cass.
pen., sent. n. 17698/2010) elementi imprescindibili di tale delitto sono la
formazione, nella persona offesa, di un perdurante stato d’ansia o di paura o
ancora del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa
vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita.
Ebbene,
alla luce di tale orientamento, è opinione della Corte che non vi sia alcuna
illogicità o incongruenza nella motivazione del Tribunale del riesame, in
ragione del fatto che i comportamenti già
tenuti dal ricorrente, che si ricorda perduravano ormai da quasi 6 anni e consistevano in rumori molesti durante la
notte o ancora in offese personali, anche se inseriti in un contesto di
significativo conflitto condominiale, costituiscono necessariamente un solido
quadro indiziario e, sono, quindi tali da giustificare l’applicazione di una
misura cautelare.
In
definitiva, quindi, “la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la
configurabilità del delitto di atti persecutori, piuttosto incombendo sul
giudice, in tali ipotesi, un più accurato onere di motivazione in ordine alla
sussistenza dell’evento di danno”, eventualità che, peraltro, era già stata
paventata dallo stesso Tribunale in sede di riesame, il quale evidenziava come
fosse necessario un approfondimento istruttorio in merito alla reciprocità
delle condotte moleste.
Quanto
poi alla seconda questione posta dal ricorrente, considerato che la difesa
dell’imputato non ha dato prova del fatto che il trasferimento della persona
offesa era venuto prima della decisione impugnata, è stata ritenuta infondata
nella misura in cui la scelta posta dal Tribunale risultava essere conforme ai
principi di adeguatezza e proporzionalità (si veda in materia Corte Cost.,
sent. n. 173/2024 ossia il c.d. paradigma della minima invasività/massima
efficacia). In quest’ottica, quindi, l’obbligo ulteriore imposto al
ricorrente non è un mero aggravio ma un monito responsabilizzate.
4. Conclusioni
Il
principio contenuto nella sentenza in oggetto riafferma l’oggettività e la
tipicità garantista del diritto penale. Infatti, da una parte, valorizza solo
quei comportamenti penalmente rilevanti, ossia quelli dai quali derivi, per la
persona offesa, un perdurante turbamento psichico e un’aggressione alla propria
libertà psichica; mentre, dall’altra, neutralizza e vieta l’utilizzo strumentale
di cause di impunità, derivate dalla reciprocità delle condotte, atte solo a svuotare
di disvalore gli atti persecutori commessi.
La
reciprocità, in conclusione, funge poi da monito per i giudici, richiamandoli, ad
un onere di motivazione più esigente in materia di sussistenza dell’evento
danno, che possa permettere di distinguere le mere ripicche e/o litigi di
vicinato, dalle vere e proprie intromissioni e aggressioni alla psiche della
persona offesa.