Pubblicato il 07/10/2025
Categoria : Diritto Penale | Sottocategoria : D. legislativo 196/2003 Codice della Privacy
Secondo la Suprema Corte,
che si è espressa sul tema con la sentenza del 25 agosto 2025, n. 29683, il nocumento,
ossia quel danno costituente la fattispecie di reato ex art 167 D. Lgs.
196/2003, è integrato anche dalla pubblicazione, su un gruppo Facebook, di una
fotografia che ritrae la persona offesa e la propria figlia minorenne già
pubblicata su Whatsapp, senza che vi sia stato il consenso espresso.
Introduzione.
Con la sentenza n. 29683
del 25 agosto 2025, la Corte di cassazione, ha meglio analizzato la definizione
che il termine “nocumento” deve assumere per poter integrare la suddetta
fattispecie di reato.
Nel caso de quo, il
ricorrente, accusato di trattamento illecito di dati, era stato ritenuto,
all’esito dei due giudizi di merito, responsabile di aver di aver condiviso la
foto profilo della persona offesa, immagine che ritrae la stessa con la propria
figlia, in un famoso gruppo Facebook senza oscurare il viso della minorenne.
Con questa pronuncia i
giudici di legittimità non solo stabiliscono che tale condotta integra la
fattispecie delittuosa del trattamento illecito di dati personali, ma, altresì,
forniscono vari punti di riflessione in merito a tale reato e, in generale,
all’attività di pubblicazione, da parte dei genitori, di foto dei propri figli,
la c.d. “sharenting”.
La vicenda processuale.
I fatti oggetto di questa
pronuncia hanno origine da un’incessante serie di insulti e offese scambiate tra
l’imputato e la persona offesa, in un noto gruppo Facebook, frequentato da
entrambi, seguito da un gran numero di iscritti.
La situazione è, però,
peggiorata quando la persona offesa ha deciso di pubblicare, nel suddetto
gruppo, una fotografia dell’imputato nudo al fine di deriderlo. Dopo questo
ennesimo affronto, l’imputato, appartenente alla Polizia di Stato, con l’aiuto
di un collega, scopre l’indirizzo della persona offesa e gli recapita una
diffida. Vedendo però che la persona offesa continuava a schernirlo e deriderlo,
lo stesso decide di pubblicare, dapprima, la foto profilo della persona offesa,
ritratta con la figlia minore perfettamente riconoscibile, sul gruppo Facebook,
aggiungendo al post insulti e minacce alla moglie della stessa; dopo pochi
minuti dalla pubblicazione, decide di eliminare il post, ripubblicandolo con i
commenti offensivi ma oscurando il volto della bambina.
L’art 167 D. Lgs.
196/2003.
La norma in oggetto,
rubricata al titolo “Trattamento illecito dei dati personali”, prevede la
reclusione da 6 mesi ad 1 anno e 6 mesi, per chiunque “al fine di trarre per
sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all'interessato, operando in
violazione di quanto disposto dagli articoli 123, 126 e 130 o
dal provvedimento di cui all'articolo 129 ,arreca
nocumento all'interessato”.
L’applicazione quindi di
tale fattispecie, recentemente modificata dal D.Lgs n. 101 del 2018, è subordinata
alla presenza di una lesione, ossia di un danno o concreto pregiudizio,
giuridicamente valido e di natura patrimoniale e/o, come in questo caso, non
patrimoniale.
La pronuncia della
Cassazione.
Focalizzeremo la nostra
attenzione su quella parte delle doglianze difensive che ha riguardo alla
condanna per il delitto di trattamento illecito di dati personali.
In particolare, secondo il
ricorrente, non vi è stato alcun nocumento, in ragione del fatto che la foto
pubblicata dall’imputato era quella abitualmente usata dalla persona offesa
come immagine profilo per la propria utenza di Whatsapp, ergo
liberamente visibile da parte dei terzi, quali i partecipanti al gruppo
Facebook. Stando a questa ricostruzione, dunque, la persona offesa, decidendo
di utilizzare quella particolare immagine come foto profilo, ha implicitamente
prestato il consenso al trattamento dei dati personali e, di conseguenza, alla
diffusione della stessa.
A fronte di tale motivo
di doglianza, la Cassazione specifica, alla luce del novellato art 167 D. Lgs.
196/2003, la nozione di “nocumento” e, di conseguenza, l’integrazione del reato
di trattamento illecito di dati personali.
Partendo, quindi, dalla preliminare
definizione a cui si faceva prima cenno, la Corte, confermando il ragionamento
compiuto dalla Corte d’Appello, argomenta come la fotografia in questione non
fosse stata deliberatamente e volontariamente pubblicata dalla persona su alcun
social network al fine di renderla pubblica, bensì “fosse utilizzata come
foto del proprio profilo sull’applicazione di messaggistica Whatsapp, come
tale accessibile solo ad una selezionata platea di contatti e comunque non
certo da questi divulgabile”.
Ciò implica che la
condotta dell’imputato, consistente nella pubblicazione sul gruppo Facebook della
medesima foto, ha arrecato alla figlia un nocumento, dal momento che, agendo in
questo modo, ha inserito la bambina “in un contesto denigratorio del nucleo
familiare, atteso il tenore del messaggio a corredo della foto, in cui
l’imputato giungeva a minacciare” non solo il proprio padre ma anche la
propria madre. È, quindi, opinione della Suprema Corte che tale condotta sia
tale da creare una profonda lesione del diritto individuale alla protezione
della vita privata e al controllo dei dati personali, ormai considerati quali
diritti fondamentali dell’individuo, giustificando, quindi, la condanna per il
reato in oggetto.
Conclusioni.
Con questa pronuncia la
Suprema Corte, oltre a risolvere una questione prettamente giuridica quale la
puntuale definizione della nozione di “nocumento”, sembra, altresì,
sensibilizzare su un fenomeno ormai crescente quale il c.d. “sharenting”,
espressione con il quale si fa riferimento alla condivisione da parte dei
genitori, via social network, di contenuti, quali foto e video, che riguardano
i propri figli.
Tale pratica, come anche
da tempo denunciato dal Garante per la protezione dei dati personali, rischia
di compromettere irreparabilmente l’integrità personale dei minori, in quanto
rende fruibile a una vasta platea, ossia la rete Internet intesa come spazio di
condivisione aperto a tutti e utilizzato per condividere e diffondere
contenuti, un dato personale, quale l’immagine del proprio figlio.
Oltre a ciò, soprattutto
grazie all’avvento dell’Intelligenza Artificiale e ai vari tools di
manipolazione delle immagini, è sempre più pressante il pericolo che,
attraverso la diffusione di foto o video dei propri figli, si possa alimentare
la diffusione di materiale pedopornografico.
Proprio perché le
immagini di minori rappresentano un dato sensibile potenzialmente in grado di
interferire sul sereno sviluppo psicologico degli stessi, l’attività di
pubblicazione di qualsiasi immagine o ripresa è considerata eccedente
l’ordinaria amministrazione e deve comportare il consenso di entrambi i
genitori, ex art 320 c.c..